Si definisce con l’espressione “dipendenza patologica” una forma morbosa determinata dall’uso distorto di una sostanza, di un oggetto, o di un comportamento; una specifica esperienza caratterizzata da un sentimento di incoercibilità e dal bisogno coatto di essere ripetuta con modalità compulsive.
Le droghe e i comportamenti di dipendenza hanno la capacità di provocare stati soggettivi di piacere e in certi casi euforia, cioè alterazioni dello stato di coscienza ordinario, le quali forniscono la motivazione principale che alimenta il comportamento di dipendenza.
Va da sé che per “stato di coscienza ordinario” si intende la capacità di vivere la vita per quello che è, una serie di momenti piacevoli e gratificanti, ma anche di momenti caratterizzati da stati emotivi negativi. Quando questi ultimi risultano intollerabili per una persona, emerge la necessità di una soluzione “urgente” che possa alleviare esperienze di disagio associate ai compiti di sviluppo, attenuare eventi quotidiani stressanti, aumentare le capacità dell’individuo di affrontare la realtà e adattarsi alle pressioni sociali.
Le sostanze psicoattive e i comportamenti compulsivi di dipendenza, dunque, possono essere considerati, da un individuo incline alle dipendenze, come uno strumento di automedicazione che, tamponando questi vissuti troppo dolorosi, risponde adeguatamente all’urgenza della situazione insopportabile; a lungo andare, tuttavia, questo “tampone” si rivela esso stesso un blocco, un ostacolo all’evolversi dell’individuo e delle sue relazioni sociali. Si tratta di un circolo vizioso, che non consente l’incontro con gli altri significativi, per il costante timore di una possibile separazione e la sensazione di non essere in grado a sostenerla.
La persona che ha sviluppato una dipendenza, spesso, si sente straniera e indifferente nei confronti delle persone che ama, in quanto non riesce a vivere il senso di appartenenza ad una relazione condivisa, ma soltanto la precarietà derivante dalla tensione degli opposti: l’unione, infatti, è impossibile senza la separazione. Un aspetto molto frequente in questo tipo di persone è una visione molto romantica della vita: anelano alla fusione totale con l’amato e/o con il mondo e quando, inevitabilmente, si scontrano con la cruda realtà, spesso si ritraggono dal mondo ordinario e il romanticismo degenera nel risentimento cinico.
Il lavoro in psicoterapia si colloca proprio lì dove la speranza vacilla e la fiducia nel prossimo sembra essere un’utopia. Lo spazio del setting, si presta in quanto spazio condiviso a cui appartenere anziché dal quale dipendere. È un lavoro lento e faticoso, ma che può portare buoni frutti.
Un argomento difficile e spinoso perchè rasenta l’incerto limite tra normalità e patologia dei comportamenti e del sentire quotidiani. Dipendenza e bisogno di dipendenza sono “normali” per le persone se non esondano da certi limiti. E’ appunto una questione di dose, come (riferiscono) scriveva Ippocrate a proposito dei veleni che soleva somministrare come farnaci.Penso che il cuore dell’eventuale problema sia da ricercarsi nel senso di identità di una persona. Se questa, l’identità, è ben strutturata, forte e autonoma non rischia di essere travolta dalla relazione di dipendenza. Viceversa un’identità debole, che delega sé stessa alle conferme dell’altro è inevitabilmente esposta al rischio di sofferenza patologica. Ma, d’altro canto, l’identità come la coscienza per Pirandello “non è fortezza ma piazza”. Un’identità non confermata dai riferimenti importati ma che si conferma da sè stessa non differisce dall’autismo. Allora qual’è la causa e quale l’effetto? Mi verrebbe da pensare che sia dalla qualità della relazione che emerge l’equilibrio.